Marcello Ziliani

Per imparare il mestiere del designer contano più idee e curiosità o l’apprendere delle tecniche?
Entrambe le cose sicuramente. Certo, un fattore che io trovo mancante, sia in alcune scuole ma soprattutto nei ragazzi stessi, è la capacità di guardare il mondo con occhi fanciulli. Mi accorgo spesso con stupore che nei ragazzi manca la curiosità e la spinta alla ricerca. Quindi sarebbe necessario per primo educare i futuri progettisti al raggiungimento di “uno sguardo libero”. Ci sono dei metodi per affinare lo stupore nei confronti delle cose e per stimolare la creatività, perché quest’ultima, al di là del talento si può coltivare e io credo che soprattutto nelle scuole vadano potenziati questi strumenti.
Accanto a questa condizione va aggiunta una profonda consapevolezza degli attori implicati, oggi, nel processo progettuale e la conoscenza degli strumenti utili per affrontare la complessità del mestiere di progettista, aumentata in maniera esponenziale anche solo rispetto a qualche decennio fa.

Che tipo di preparazione dovrebbe avere oggi un aspirante designer per essere competitivo soprattutto con le aziende?
Proprio perché è cambiato il modo con il quale si è chiamati a fare i progettisti, nel bagaglio di una buona formazione ci devono essere per forza degli strumenti tecnici. Se è vero che oggi è possibile fare tutto è anche vero che bisogna saperlo fare con competenza, senza sprecare risorse ed energie. Avere un’idea il più possibile precisa delle responsabilità che il progetto comporta, sia in termini culturali, legati agli ideali del fare progettuale, sia in termini di sostenibilità. Oggi l’ottanta per cento delle caratteristiche sostenibili di un prodotto si giocano in fase di progetto; e non si tratta di un discorso astratto, bisogna avere gli strumenti di valutazione per vagliare questi aspetti, saper introdurre i dati corretti per una corretta analisi e queste sono cose che non si improvvisano. Sostenibilità vuol dire anche ottenere oggetti più sani dal punto di vista dell’economia generale, reale, non solo di quella ambientale; pensare prodotti che possano far parte dell’ecosfera complessiva.

Pensa che il modo in cui si formano i futuri designer sia ancora valido in generale o a fronte anche di cambiamenti sociali e tecnologici in atto vada rivisto?
Direi che per certi aspetti lo scenario formativo è già in fase di revisione, ad esempio il corso di laurea dove io insegno si è aperto nell’offerta specialistica (laurea magistrale) verso l’interaction design, che giocherà sempre più un ruolo determinante negli oggetti del futuro.
Ci sono dei nuovi fenomeni che impongono delle revisioni a breve termine. Parlavamo dell’aumento del grado di complessità del mestiere: forse tutti i progettisti in fondo hanno potuto sperimentare la stessa cosa per il loro tempo, ma è altrettanto vero che adesso ci troviamo difronte a un fenomeno epocale per il progetto. Mi riferisco a tutte quelle pratiche che ci parlano di makers culture, di open source, di crowfounding, e hanno dato forma a uno scenario di nuova autoproduzione che non ha nulla in comune con l’accezione tradizionale di questa. Non cambiano solo i modi di costruire le cose ma anche i sistemi distributivi tradizionali, oltre al modo in cui il progettista può fare ricerca e ricavare i know how necessari al progetto stesso oggi esplosi nella condivisione attraverso la rete. È un fenomeno nel quale siamo immersi e di cui i progettisti stessi faticano ancora a percepire la reale portata ma con il quale non possiamo fare a meno di misurarci.
Anche gli studenti, pur essendo dei nativi digitali, fanno fatica a comprenderne la portata, ne sono spesso un pò inconsapevoli; usano il digitale ma senza una vera consapevolezza delle potenzialità organiche del mezzo.

Possiamo dire che anche il progettista può avere (ed è storicamente dimostrato) un ruolo formativo per un’azienda?
I designer storici, da Magistretti a Castiglioni, sono stati fortemente implicati nel processo aziendale complessivo, con compiti talvolta di indirizzo per l’azienda stessa oltre che nella selezione dei progetti. È una storia che si conosce e ha fatto grande il rapporto tra alcune imprese e i medesimi progettisti.
Questo tipo di scambio esiste certamente ancora oggi ma ci sono rapporti di forza diversi, con designer che hanno più potere contrattuale ed altri meno, e comunque con il rischio – perché io trovo che questo sia un punto critico della questione – che le aziende desiderose di trovare un deus ex machina che risolva loro tutti i problemi, rischino di diventarne dipendenti perdendo la loro autonomia e la loro identità, snaturandosi persino. L’azienda non dovrebbe, a mio avviso, piegare la sua immagine aziendale sull’art direction di un solo individuo, per quanto questo sia una prassi spesso evidente anche nel settore bagno. Un designer capace e operativo dentro ad un’azienda sana dovrebbe agire non come regista assoluto ma piuttosto come elemento stimolatore, capace di sostenere e promuovere competenze, relazioni e modalità che devono rimanere patrimonio culturale e professionale dell’azienda stessa.

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